Ne sentiamo parlare spesso nella pubblica amministrazione ma pochi sanno realmente di quale reato si tratti
Secondo l’art. 323 c.p
Si ha il reato di abuso d’ufficio quando un pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, nell’esercizio delle sue funzioni produce un danno o un vantaggio patrimoniale che è in contrasto con le norme di legge o di regolamento. Il bene giuridico tutelato è il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica amministrazione, oltre alla trasparenza dell’azione amministrativa.
Il reato di abuso d’ufficio è stato oggetto di due recenti riforme legislative che ne hanno modificato incisivamente la disciplina: si tratta della riforma attuata con la legge 86/1990 e la riforma del 1997 operata con la Legge 234/1997. Tali riforme hanno operato una netta distinzione del reato di abuso d’ufficio rispetto a quanto invece sottoposto al Tribunale amministrativo regionale e oggetto di abuso di potere, quale figura sintomatica dell’annullabilità dei provvedimenti amministrativi. La durata della pena è stata nuovamente modificata verso l’alto dalla legge 190/2012 (i termini edittali minimi furono portati da sei mesi a un anno e quelli massimi da tre a quattro anni).
La riforma del 1997, in particolare, ha prodotto due effetti estremamente discutibili sul piano politico criminale:
- in primo luogo, riducendo di un anno il limite massimo della pena originariamente previsto (portandolo da cinque a quattro anni, quando il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale), ha escluso la possibilità per il pubblico ministero di chiedere, nel corso delle indagini, intercettazioni telefoniche (infatti, ai sensi dell’art. 266, comma 1, lett. b) c.p.p., tale mezzo di ricerca della prova è consentito nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni);
- in secondo luogo ha ridotto l’area del penalmente illecito: nella versione previgente, invero, era punito il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che avesse abusato del suo ufficio al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale, o per arrecare ad altri un danno ingiusto (l’evento, dunque, si sostanziava nell’esercizio di prerogative secondo modalità difformi dal paradigma normativo); nella nuova previsione, è punito il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o intenzionalmente arreca un danno ingiusto (l’evento è, quindi, il conseguimento di un vantaggio ingiusto o il prodursi di un danno ingiusto). L’elemento soggettivo richiesto è oggi il dolo intenzionale e non più il dolo specifico, quindi la fattispecie in questione non potrà essere realizzata con un dolo eventuale, così determinando difficoltà probatorie di non poco momento. Inoltre, è stato espunto il vantaggio non patrimoniale: ai fini dell’integrabilità del reato, il vantaggio deve essere “patrimoniale”.
Il vantaggio patrimoniale è rappresentato da qualsiasi vantaggio suscettibile di valutazione economica come l’attribuzione di un posto di lavoro; il danno, invece, è definito come ingiusto questo vuol dire che ricomprende tanto il danno patrimoniale tanto quello non patrimoniale. La Cassazione, con un’interpretazione discutibile sul piano politico-criminale, ha ritenuto che l’ingiustizia del profitto o del danno non possa de plano farsi discendere dal fatto che il pubblico ufficiale, o l’incaricato di pubblico servizio, ha agito in violazione di norme di legge o di regolamento, dovendosi al contrario operare una duplice, distinta valutazione (c.d. criterio della doppia o autonoma ingiustizia: violazione di legge o di regolamento, da un lato; ingiustizia del profitto o del danno, dall’altro). Commetterebbe tale reato ad esempio il dirigente comunale degli “Affari generali e personale” che adotta un atto amministrativo diretto all’assunzione temporanea della figlia per chiamata diretta presso il corpo dei vigili urbani, quindi non astenendosi in una situazione di conflitto di interessi e per di più favorendo la figlia a discapito di terzi che possedevano più requisiti per l’assunzione. Sentenza n. 6705/2012 Corte di Cassazion